UNO COME ME: 9 NOVEMBRE 1989

UNO COME ME: 9 NOVEMBRE 1989

Mentre cadeva il Muro

«La sera del 9 novembre 1989 mi trovavo a una festa universitaria in zona Cascine. Vi andai svogliatamente: quella sera faceva un po’ freddo e pioveva, quindi non potevo concedermi l’abituale passeggiata sul Lungarno. Devo quindi al maltempo l’incontro che, di lì a breve, avrebbe stravolto la mia vita. Ci scambiammo il primo bacio mentre tutti gridavano e ballavano di fronte alle roboanti immagini in diretta tv da Berlino; il 9.11.1989 per me non sarebbe stato mai l’anniversario della fine della Guerra Fredda. Cadeva il Muro, ma soprattutto crollava ogni mia difesa davanti alla creatura che individuai e incastrai come il tassello finale nel puzzle immaginario della donna della mia vita.

Il matrimonio

La primavera successiva, sul fondale fiorentino avvampato dai fuochi di artificio di Piazza Michelangelo, le chiesi di sposarci. Programmammo le nozze per l’autunno e anticipammo la luna di miele: un road trip in Europa con destinazione finale Amsterdam. Avevamo vent’anni e, almeno io, ero governato da un prepotente romanticismo e da un idealismo puro e incontaminato.
Se quella sera fossi rimasto a casa il 9 novembre sarebbe rimasta una data come tante altre, e forse non sarebbe nemmeno caduto il Muro.
Di una cosa sono certo: non sarei chi sono oggi, né mi troverei dove ora sono.
Nella sfarzosa Sala Rossa di piazza della Signoria, la mia futura moglie pronunciò il “sì” al terzo mese di gravidanza.

Il richiamo

A Innsbruck, prima tappa del nostro viaggio di nozze, pianificammo il futuro a tre carichi di un entusiasmo dissennato. Per motivi diversi le nostre risorse economiche erano esigue: io non avrei potuto contare sull’aiuto della mia famiglia, mentre lei non intendeva chiedere nulla ai suoi più che benestanti genitori. Avrei chiesto il tempo pieno alla trattoria in centro, dove lavoravo come cameriere nei weekend, e nel mentre avrei cercato altro. Dopo un paio di giorni trascorsi a Monaco, riprendemmo l’Autobahn verso il confine nord-occidentale, in direzione Francoforte; a ogni bivio ero distratto e attratto, come in un campo magnetico, dalle indicazioni per Berlino. Chissà com’era la città dopo il Muro, ancora – per poco – divisa tra le due Germanie.

Chi vi era stato ne parlava o in termini entusiastici, o descriveva una metropoli grigia e squallida. Ero più incline alla prima versione, per via del mio ancora intatto ottimismo; ancora oggi resto soggiogato da chiunque riesca a intercettare il bello laddove in tanti non vedono nulla. Non ne accennai con lei e mantenni la rotta prestabilita: eravamo attesi a Gouda da una coppia di conoscenti che ci avrebbe ospitato. Il nostro budget era limitato e una deviazione di quella portata significava come minimo un ulteriore pieno di benzina e le spese di alloggio. Seppi successivamente che avremmo potuto ricevere accoglienza gratuita in una delle numerose case occupate. Soprattutto nel settore orientale della città, migliaia di cittadini della DDR abbandonavano le loro abitazioni.

Uno come me: 9 novembre 1989

La rottura

A quei tempi, senza internet e i telefonini, pianificare un viaggio era un’attività che richiedeva un pragmatismo ben distante dalla mia natura. Fu lei ad acquistare una cartina europea e a tracciarne sopra le rotte. Annotò su un quaderno le tappe e gli indirizzi delle scalette quotidiane e portò anche una macchina fotografica. Purtroppo la smarrii proprio io sulla spiaggia di Zandvoort. Della nostra avventura mi restano solo le immagini impresse, ben vivide, nella camera oscura della memoria.

Tale disattenzione generò il primo litigio che frantumò e interruppe, per qualche istante, quell’idillio che era proseguito ininterrotto per otto mesi. Dopo un pomeriggio di vento e sabbia, una tempesta di rabbia e improperi mi colse impotente. Fu il primo segnale dell’insanabile discrepanza tra sogno e realtà. Volli comunque continuare a vivere su una nuvola, e da lì osservare e percepire il mondo esattamente come lo volevo vedere. Anche nei momenti più difficili, mi appariva puntualmente sotto una luce rinfrancante ma ingannevole. Pur frastornato, non attribuii peso a quell’episodio.
Oggi so che fu il primo mattone di una lunga serie che innalzò il muro su cui entrambi ci saremmo presto, da lati diversi, schiantati.

Il baratro

Dopo le nozze e la nascita di nostro figlio, non ero più in grado di seguire le lezioni, per cui abbandonai l’università. Il lavoro al ristorante permetteva di provvedere ai costi di affitto, bollette, pappe e pannolini, ma mi succhiava tempo ed energie. Cominciammo a discutere e litigare con sempre maggior frequenza. Lei mi scaraventava addosso il senso di frustrazione che, diceva, le procuravo con la mia urticante compostezza. La amavo, o forse ero solo in sua balia. Mi lasciavo travolgere dalle sue parole sprezzanti e dai suoi scatti d’ira, incapace di analizzarli. Assistevo, passivo e inebetito, a un sempre più marcato processo di distanziamento. Tentavo di colmare l’evidente gap ricoprendola di attenzioni inutili per chi ormai desidera qualcuno e qualcosa di completamente diverso.
Mi lasciò per un altro. Non fu facile nemmeno per lei.

Ci separammo consensualmente e un giudice decretò l’affido congiunto di nostro figlio, ma di fatto non accettai mai il fallimento dell’unione. Conobbi subito l’usurpatore: un tipo in gamba, certamente più solido e inquadrato di me. Con lui paventavo un atteggiamento conciliante e rilassato. In realtà lo detestavo. O meglio, odiavo il mio essere ad anni luce da quell’esemplare di solidità, da quel modello di vita virtuoso che non mi poteva appartenere. La rabbia inespressa mi trascinò nei più bui inferi, dove nessuno poteva udire le mie grida, né accorgersi del mio processo autodistruttivo.

Durante uno dei weekend con il bambino, uscii per andare a comprare della vodka, abbandonandolo da solo in casa, per ore. Appena uscito dal minimarket avevo iniziato a tracannare una delle bottiglie ed ero finito con l’addormentarmi in terra, nel sottopassaggio pedonale della stazione. Un conoscente mi riconobbe e avvisò la mia ex moglie che accorse con il suo partner. Mi riportarono a casa, mi misero a letto e portarono il bambino con loro. Mi fu tolto temporaneamente l’affido.
Lei avrebbe voluto aiutarmi, ma ero ormai dentro una spirale vorticosa. Tutto sommato, la sottrazione di mio figlio non mi pesò; addirittura mi produsse un certo egoistico sollievo.
Raccolsi i miei pochi effetti personali e scrissi in un biglietto la richiesta di non essere cercato.

Uno come me: 9 novembre 1989

Un nuovo viaggio

All’ingresso dell’A1 di Firenze Nord trovai un passaggio fino al Cantagallo, nei cui bagni dormii una notte. Conobbi un autotrasportatore di Amalfi. Riconobbe il mio forte accento sorrentino e decise di portarmi con sé. Voleva sfottermi in nome di antiche rivalità, ma soprattutto aveva bisogno di compagnia per restare sveglio. Destinazione Essen: 14-15 ore di viaggio, soste escluse.
La meta perfetta, distante quanto bastava da tutto ciò che mi stavo abbandonando alle spalle.
Domandai al mio benefattore quanto distasse Berlino da Essen: rispose poche ore di treno. Poi disse: “che cosa vai a fare a Berlino? Lì c’è solo miseria e disoccupazione”. Aggiunse che solo i disadattati e i relitti umani andavano in quella città che, più che la neo capitale, era la vergogna della Germania.
Mi sembrò la destinazione ideale. Rafforzava tali concetti, e nella mia mente si dissipavano le nebbie, rivelando la nitida certezza della mia, ancora una volta, irrazionale ed estemporanea decisione.

Reinventarsi

Nella Berlino di metà anni ’90 potei solo smarrirmi ulteriormente e per lunghi anni, prima di ritrovarmi. Vissi randagio per mesi, ospite di diverse comunità di squatter. Per un paio di notti dormii persino alla Kunsthaus sulla Oranienburg Straße. Lì si viveva un clima sognante e si respirava un’aria rivoluzionaria: idee, alcol e droghe circolavano liberamente. La scena techno era nel suo momento di massimo fulgore e ogni notte era un pellegrinaggio da un locale all’altro. Le mie giornate cominciavano nelle prime ore del pomeriggio. Assediato dalla fame, uscivo per chiedere l’elemosina rovistare tra i rifiuti, alla ricerca di “scampoli” di cibo e di mozziconi di sigarette.
Mi improvvisai artista, stimolato dall’incalzante e inebriante creatività della Kunsthaus, dove trascorrevo molto tempo. Assemblai alcune pseudo-sculture con oggetti e ferraglie trafugate furtivamente dai cassonetti condominiali. Le smerciai con sorprendente facilità per qualche decina di marchi, il necessario per tirare avanti due o tre giorni. Ancora, recuperavo pezzi di mobilia e elettrodomestici abbandonati in strada e li rivendevo a prezzi stracciati.

Uno come me: 9 novembre 1989

Una vita nuova

Un giorno, un amico francese conosciuto al Café Sybille, mi propose di unirmi a lui per occupare un intero stabile a Prenzlauer Berg. Dal tetto, una minuta ragazza basca agganciò un cavo di derivazione a un traliccio della rete pubblica, in quel tratto semi-occultato dagli altri edifici. Avemmo così luce e corrente per scaldare l’acqua – stranamente presente – e prepararci da mangiare. A grande richiesta cucinavo quantità industriali di una specie di carbonara. Un orrore a base di spaghetti tedeschi collosi, wurstel e panna. Dopo qualche mese, intrecciai una nuova relazione. Mi riuscì naturale il trattenere facili entusiasmi e decisioni prese con impeto. In verità, fu proprio la mia nuova fiamma a rendermi il compito più semplice. Lei era una ragazza originaria della Turingia che ripudiava ogni sorta di schema, qualsiasi forma di controllo. Una ribellione tardiva, dopo vent’anni vissuti sotto la cappa soffocante della defunta DDR.

Stabilii con lei una relazione che aveva poco di romantico, ma era lei a occuparsi del necessario per vivere. Sarebbe stato facile per una ragazza carina come lei lavorare come cameriera presso uno dei locali che si stavano moltiplicando come funghi a Mitte. Ma i brand americani delle catene di fastfood o caffetterie le ripugnavano. Reputava McDonald’s e Starbucks più immorali e disgustosi dei falsi ideali del socialismo che l’avevano oppressa e ingannata. Piuttosto, accettava lavori umili e precari, quasi sempre in nero e sottopagati. Qualche volta si prostituiva, impresa tutt’altro che semplice. A Berlino, soprattutto nella parte est, giravano pochi marchi; poteva confidare in qualche sporadico cliente benestante di Charlottenburg o Steglitz. In ogni circostanza tra queste, cadevo nello sconforto, ma non certo per gelosia. Provavo un senso di profonda umiliazione. Poi, quando tornava con ricche scorte di cibo, alcol, sigarette e “roba”, dimenticavo tutto all’istante.
Dimenticare, del resto, mi era sempre riuscito bene.

Piccolo mondo

Di tanto in tanto nella nostra comune transitava qualche italiano. Il mondo è davvero piccolo e un giorno riconobbi un amico di mio fratello. Lo trovai un giorno, mio fratello, seduto su uno dei divani del grande salone centrale a sorseggiare caffè con i miei coinquilini. Rimasi a bocca letteralmente aperta, al punto da non prestare troppa attenzione alla mia compagna, palesemente esterrefatta. Lei sapeva che ero fuggito dall’Italia, ma non da un matrimonio fallito e da un figlio.
Se ne andò quel giorno stesso. Minimizzai la faccenda, pensando che con qualche spiegazione sarebbe rientrata. Ero contento di rivedere mio fratello, di trascorrere un po’ di tempo con lui, dopo anni.
Cercò di convincermi di quanto la mia vita fosse immorale e inconcludente. Non riuscii a fargli accettare che ne fossi al corrente. Che quella vita l’avevo scelta e non vi avrei mai rinunciato.
Mi riferì della mia ex mogli: mi aveva a lungo cercato, preoccupata per me e intenzionata a preservare il mio rapporto con nostro figlio. Venni soverchiato da vergognosi sensi di colpa. Quel tipo odioso con cui stava e che in fondo mi piaceva aveva legalmente adottato il mio bambino.

Rivelazioni

La donna della mia vita si era spenta a 24 anni, a causa di un male fulminante. Nostro figlio viveva con il suo unico e vero padre. Ogni estate lo portava a Sorrento dai miei genitori e da mio fratello.
Provai un fastidioso sollievo. La mia totale e manifesta irresponsabilità non aveva provocato danni irreparabili.
Attesi invano il ritorno di Fräulein Thüringen, così la chiamavo. Venni a sapere che viveva sulla Schönauser Allee, ma ogni mio tentativo di riconciliazione ricevette rifiuti netti e inesorabili. Mi disse a chiare lettere che non voleva più avere a che fare con un soggetto infido come me.
Non l’ho più rivista.

Uno come me: 9 novembre 1989

Oggi

Attualmente abito in un piccolo centro nel Brandeburgo, a 15 km da Berlino: un paesotto asfittico e senza carattere, come me. Però è sufficientemente tranquillo. Ho smesso da anni con club e anfetamine; è rimasto giusto un po’ di alcol, che reperisco facilmente all’Aldi sotto casa.
In meno di un’ora di autobus arrivo a Lichtenberg. Il mio lavoro fa schifo: esco di casa ogni giorno all’alba e rientro che è ora di cena. In Campania, intendo. Qui fa buio e si cena molto presto. Il mio ufficio è un seminterrato con una sola finestra, resa cieca da un muro. La pausa pranzo assomiglia all’ora d’aria del carcere. È l’unico squarcio di luce che illumina le mie lugubri giornate, tutte uguali. Ho molti colleghi ma nessun amico.

Solo

Non ho più avuto storie. Mi giustifico sempre con la nobile intenzione di risparmiare a povere ed eventuali malcapitate la sciagura di uno spiantato come me. Quando sciorino questa spiegazione che vorrebbe essere solo una sciocca battuta, non vengo preso sul serio. A giudicare dalle occhiate di perplessa o sadica compassione, direi di suscitare solo una gran pena.
Conduco una vita tranquilla. Ogni giorno lo vivo come se fosse l’ultimo atto di un insulso e banale dramma, incurante dell’eventualità di vedere o meno il sipario calare. Mi sento solo.
Piango spesso, sopraffatto dall’entusiasmante e crudele realtà di questa città così magica, elettrizzante, ma anche decadente e spersonalizzante. Ho solo me: l’ho capito una notte di un paio d’anni fa, l’ultima in cui ho tirato di speed. Ero collassato sui sedili di un vagone del Ring, e mi sono risvegliato dopo non so quante ore e quanti giri, nell’indifferenza generale. Giusto qualche occhiata discreta e giudicante: il solito disadattato.
Nonostante tutto sono sereno. Talvolta persino felice, estasiato dallo splendore e dalla miseria con cui la vita può stupirmi e ferirmi, facendomi sentire ancora così sorprendentemente vivo.
Il 9 novembre 1989, mentre il Muro di Berlino crollava, si ergeva il castello dei miei sogni. Sogni in cui non è così importante credere e ai quali temo mai mi riuscirà di rinunciare.

Uno come me: 9 novembre 1989

Accontentarsi

“Mio” figlio ha compiuto da poco 30 anni. Si è laureato, lavora e vive a Fiesole con la sua compagna: stanno per diventare genitori. Mio fratello di tanto in tanto mi manda via e-mail alcune sue foto.
Le osservo e mi chiedo se io abbia sbagliato a credere nei sogni o a smettere di crederci. Se sia più fesso io a essermi assuefatto alla realtà – ammesso che tale sia – o lui a sognare ancora. O ad accontentarsi.

Non ci sarebbe nulla di male ad accontentarsi. Se solo io ne fossi capace.
Se soltanto conoscessi il sapore (dolce o acre?) dell’appagamento.»

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