PREGIUDIZI, LUOGHI COMUNI E INVISIBILITÀ

PREGIUDIZI, LUOGHI COMUNI E INVISIBILITÀ

Il mio “orgoglio” italiano

La prima volta che visitai Berlino, sul finire dello scorso millennio, ero un giovane ragazzo che aveva messo il naso fuori dagli italici confini poche volte. Ciò nonostante fossi affetto, fin da piccolo, da una spiccata esterofilia. All’epoca, infatti, covavo un forte complesso di italianità, maturato durante un paio di incursioni in Austria e in Francia, dove mi ero sentito osservato come una animale fuggito dallo zoo. Ciò aveva comportato, a sua volta, una serie di pregiudizi, di opinioni sugli altri europei, tedeschi in cima, fondate su luoghi comuni e un forte desiderio di invisibilità della mia italianità. Ritenevo noi italiani arretrati e provinciali, gli stranieri più civilizzati ed evoluti, ma anche più antipatici, stronzi e meno furbi. Come nella serie delle terribili barzellette che iniziano con «ci sono un tedesco, un inglese, un francese e un italiano…». Una parte di me si vergognava, l’altra difendeva la propria italianità con forza, anche se più per orgoglio personale che per fierezza o senso di appartenenza.

Pregiudizi luoghi comuni e invisibilità
Stoccarda anni ’90

Precedentemente, ero transitato in Germania in un periodo in cui i tg italiani trattavano di frequenti episodi xenofobici nei confronti di Turchi, Nordafricani, Mediorientali e Italiani. Io e un amico eravamo diretti verso Amsterdam e decidemmo di fermarci per una notte a Stoccarda. Sotto l’albergo notammo subito un gruppo di giovani con la testa rasata, tempestati di borchie e tatuaggi. Ci indirizzarono delle occhiate ostili che percepimmo ostili e minacciose, per cui convenimmo di barricarci in albergo fino alla ripartenza.

Espresso e bidet

Durante il primo soggiorno a Berlino mi sentivo talmente a disagio da cercare, maldestramente, di alterare la percezione altrui circa la mia provenienza. Non volevo essere identificato e incasellato come il “solito” italiano. Ricordo che quando raggiunsi il Berliner Dom regnavano il silenzio e la pace assoluti. Poi, irruppe un gruppo di connazionali; iniziarono a schiamazzare e ridere, giocando con l’acqua della grande fontana al centro del Lustgarten, nonostante il freddo dicembrino. Naturalmente generarono occhiate di rimprovero e sconcerto tra gli altri turisti di svariate nazionalità. Noi ci allontanammo con sveltezza, per non rischiare di venire associati a quell’esercito di barbari. Purtroppo, l’arte di distinguersi nella massa, con comportamenti non edificanti, caratterizza alcuni italiani. In genere sono quelli che si lamentano dell’espresso cattivo e dei bagni senza bidet.

Italiani veri
Pregiudizi luoghi comuni e invisibilità

Oggi, riguardando le vecchie foto di quel viaggio denoto che anche i meno attenti avessero capito che fossimo una comitiva di italiani: eravamo bardati come pronti per una spedizione artica. Le temperature erano certamente più rigide di quelle a cui eravamo abituati a Roma, ma non giustificavano tale eccesso.
In più io ostentavo un ordinario look da domenica paesana: camicie bianche e a quadri sotto maglie in lana merino dai colori sgargianti.

Invisibilità

Negli anni ho fortunatamente capito che, per quanto uno possa essere scontento o felice del luogo dov’è casualmente nato e cresciuto, non hanno senso i sentimenti di vergogna, come pure quelli d’orgoglio.
Ho soprattutto compreso che, contrariamente alle piante, possiamo scegliere il nostro habitat ideale, indipendentemente dal terreno dove si sono hanno le radici. Berlino mi ha trasmesso, anche se non in occasione di quel primo soggiorno, un inspiegabile e metafisico senso di appartenenza, che va oltre gli aspetti e le ragioni possibili da isolare.
Pregiudizi e luoghi comuni si basano anche su un fondo di verità, ma nel mio caso alimenta un processo di mitizzazione che rasenta l’idolatria per i berlinesi: solo qui ho conosciuto l’agognata sensazione di invisibilità. Quella che mi consente di andare in giro con le scarpe rotte o i pantaloni bucati senza che in troppi se ne accorgano. Oppure, di vestirmi come se mi fosse esploso l’armadio addosso senza suscitare attenzione o commenti.

Londra, Madrid, Roma, Berlino

Sulla metropolitana di Londra non è raro che due estranei, temporanei compagni di viaggio, scambino qualche battuta. Su quella di Madrid aleggia un’atmosfera distesa e allegra; sui mezzi di a Roma un certo nervosismo che sfocia anche in ringhi e risse più o meno verbali. A Berlino generalmente ci si ignora l’un l’altro: il tipico Berliner viaggia chino su un libro o sullo smartphone, oppure è perso nei propri pensieri con un’espressione vitrea. Per quanto possa sembrare alienante, è uno degli aspetti che maggiormente prediligo. Sono abbastanza alto e corpulento, per cui destinatario di sguardi che mi creano un certo disagio. Vengo guardato con terrore, come un armadio a quattro ante che alla prima curva o frenata caracollerà addosso a un bambino o a una vecchietta.
A Berlino acquisisco l’agognata invisibilità, anche perché i miei 187 centimetri qui sono la piuttosto comuni: ci sono persino donne più alte di me.

Il berlinese e il campano

Lo scorso anno, mi trovavo su un treno della U-bahn nell’ora di punta. Eravamo tutti accalcati, come sardine sottovuoto, e le operazioni di salita e discesa erano particolarmente difficoltose. Mentre stavo in bilico e in apnea, aggrappato come potevo a uno dei sostegni, notai che il ragazzo seduto vicino a me si stava alzando per scendere.
Mancavano un paio di fermate alla mia discesa, per cui non pensavo di sedermi, ma strisciai alle sue spalle, pensando di agevolarlo nel guadagnare le porte. Il tizio interpretò la mia mossa come un tentativo di accaparrarmi il suo posto a sedere e, con un forte accento – credo – campano – mi fece: “E famm’ scenn’, maronn’! Shtai proprio esaurito!”. Lo guardai come se si fosse espresso in una misteriosa lingua arcaica e, con un’espressione tipo sfinge, non proferii parola alcuna, ripetendo in loop a me stesso: “Ich bin ein Berliner. Ich bin ein Berliner.

Germania vs. Italia sotto ai tigli

Come mi sembrarono lontani i trascorsi del mio esordio berlinese, in quel momento. È riaffiorato nella mia mente un episodio che mi fa ridere ancora oggi, per quanto forse non ci sarebbe granché di divertente.
Premessa: dire a un italiano quanto egli sia italiano è come accusare un permaloso di essere suscettibile. E visto che io ero (e sono) entrambe le cose, rischiai un pesante incidente diplomatico sull’Unter Den Linden.
Stavo passeggiando “sotto i tigli” con i miei amici, scattando stupide foto davanti alla gigantografia di un currywurst. Oppure a fianco del cartonato di un enorme cono gelato; sopraggiunsero una signora e un signore locali a braccetto, e la Frau tutta sorridente, ci apostrofò con un simpaticissimo “Italien! Mafia!“.

Reazioni sbagliate

Se oggi si ripresentasse una circostanza del genere, sono certo che risponderei: “Ja, du hast recht!”. Invece, all’epoca ero giovane, candido e impulsivo, in parole più adeguate: una testa di cazzo. Sensibile ai pregiudizi sugli Spaghettifressen, ma schiavo dei luoghi comuni sui “crucchi”, mi voltai e le indirizzai una replica irripetibile al punto di non scriverla qui: altro che invisibilità! Mi distinsi e feci riconoscere alquanto bene!
La gentildonna forse non la udì e, per fortuna, neppure gli altri tedeschi lì presenti. I miei amici raggelarono e uno tra essi, giustamente, mi rimproverò con forza.
Oggi so di aver scampato un pubblico linciaggio, ma continuo a sentirmi un cretino.

Pregiudizi luoghi comuni e invisibilità

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