LA DOLOROSA VITA DI KÄTHE KOLLWITZ

LA DOLOROSA VITA DI KÄTHE KOLLWITZ

Käthe Kollwitz (Königsberg, 8 luglio 1867 – Moritzburg, 22 aprile 1945)

Non conoscevo la storia di Käthe Kollwitz, la sua arte e la vita a dir poco dolorosa e travagliata. Avevo letto il suo nome e, al massimo, ricordavo la sua immagine ritratta su qualche vecchio francobollo. Talvolta certe “lacune” vengono colmate dalla casualità degli eventi. Una tarda e fredda mattinata di gennaio di diversi anni fa, passeggiavo per Prenzlauer Berg, quartiere un tempo operaio, nonché fucina dei movimenti giovanili di ribellione al regime socialdemocratico. Dopo il crollo del Muro, molti berlinesi di quest’area si trasferirono in altre zone, prevalentemente nei quartieri occidentali. L’intera area divenne il rifugio e la base ideale per orde di artisti e giovani che vi si insediarono, occupando e riqualificando i numerosi edifici e spazi abbandonati. Da quartiere del ceto medio-basso, P’berg divenne il primo Ortsteil di tendenza della città riunificata.
Oggi, ormai da svariato tempo, è una delle zone più amate e costose della città.

Il Kollwitzviertel

A un certo punto mi ritrovai a percorrere il perimetro di un’insolita piazza triangolare con un desolato giardino al centro. La mappa mi suggerì: Kollwitzplatz, fulcro del piccolo e omonimo rione. Il termometro segnava una temperatura prossima allo zero, eppure nel piccolo triangolo urbano era in atto un concitato viavai di persone. Era l’ora di pranzo, con i lavoratori in pausa pranzo e i bambini che uscivano da asili e scuole. Le sedie dei numerosi caffè e ristoranti erano impilate, inclinate o rovesciate sui tavoli. Non era certo la giornata ideale per pranzare all’aperto, ma immaginavo la tipica scena berlinese in giornate dal clima più clemente. I tavolini dei locali gremiti e le panchine del giardino occupate e, il bivacco sul prato sotto gli alberi.

Scene di vita

Mi sedetti a pranzare, in totale solitudine, al centro di una lunga panchina in legno, snodata come un grande serpente, all’angolo di un incrocio della piazza. Consumai il mio pranzo frugale osservandomi intorno. Ammiravo i begli edifici circostanti e mi godevo la quiete di quelle strade alberate, con le piste ciclabili e gli ampi marciapiedi in ciottolato. Scorsi un ragazzo che pedalava trainando una cargobike, con all’interno tre bambini, e una ragazza che spingeva un passeggino doppio semicoperto da cui facevano capolino dei minuscoli piedi. Ricordai di aver letto che Pberg è il quartiere con il tasso di natalità più alto della città. Iniziai a scattare qualche foto per immortalare quello spaccato di quotidianità così ritmico e incantevole.

LA DOLOROSA VITA DI KÄTHE KOLLWITZ
La statua

Avevo acquistato il sandwich e il caffé presso un piccolo bistrot, anch’esso titolato con il nome della sfortunata artista tedesca. Decisi di approfondire la mia conoscenza con Käthe e mi addentrai nel giardino al centro della piazza incuriosito dalla presenza di una grande e statica figura. Le aree giochi erano deserte, la vegetazione spoglia e le aiuole impregnate dalle recenti e frequenti piogge. Nel mezzo di una piattaforma a larghe piastrelle, un parallelepipedo marmoreo su cui poggiava una figura di donna, a opera di Gustav Seitz. L’elegante compostezza e la sensazione di fierezza impressa sul viso, poteva suggerire l’idea di una regina. Tuttavia il disadorno cubo su cui era seduta e la tunica spartana, lunga fino ai piedi, che indossava, avevano ben poco di nobile o regale. Alla base della scultura troneggiava, a grandi caratteri e in rilievo, il suo nome.

LA DOLOROSA VITA DI KÄTHE KOLLWITZ
LA DOLOROSA VITA DI KÄTHE KOLLWITZ
Un volto sofferente e provato

Prima di quella gelida mattina, di quel caffè, di quella strada, di quella piazza e di quella statua non mi ero mai posto domande su chi fosse Käthe Kollwitz. Scrutai a lungo quel volto severo, gli angoli della bocca ricurvi verso il basso, la testa leggermente protesa in avanti, lo sguardo pietrificato, come in un fermo immagine, nell’affranta compostezza di chi porta sulle spalle il peso e ha intriso nello sguardo i solchi di un profondi e insanabile dolore.
Scattai qualche foto e il vento iniziò ad aumentare di intensità, gettandomi addosso e in viso minuscole e fastidiose gocce di ghiaccio. Notai all’orizzonte che il cielo si era fatto di un nero funesto e cominciai ad avvertire in lontananza il fragore dei tuoni. Riposi rapidamente la fotocamera nello zaino e mi tornai a passo svelto in un vicino bistrot e, dopo avere ordinato un Tee e un Apfelstrudel, digitai il suo nome su un motore di ricerca.

La Pietà Laica

Realizzai di averla già “incontrata” anche sull’Unter Den Liden, dentro alla Neue Wache, il mausoleo ottocentesco in stile neoclassico eretto a inizio 800 come sede della Guardia reale e monumento in memoria dei caduti nelle guerre napoleoniche. Al suo interno, posizionata al centro e sotto l’oculo, un’unica scultura dalla potente forza espressiva, raffigurante una madre che stringe a sè il figlio morto.

LA DOLOROSA VITA DI KÄTHE KOLLWITZ

Un dolore che la Kollwitz riuscì purtroppo a ben rappresentare, a seguito della tragica morte del figlio più giovane, caduto nelle Fiandre durante i combattimenti della I Guerra Mondiale. Una perdita che la segnò profondamente e che la spinse ulteriormente e per il resto dei suoi anni a rappresentare l’assurdità della guerra e le sofferenze da essa cagionate. Le sue opere – includenti anche diversi dipinti, litografie, acqueforti e disegni a carboncino – posseggono un enorme impatto e un’intensa forza espressionista.

Una Berlino distante dall’immaginario di metropoli fiorente

Sul finire del XIX secolo, Käthe sposò un medico, dal quale assunse il cognome. Vissero in una casa popolare sulla stessa strada (al civico 56A) oggi a lei intitolata, a pochi metri dal bar in cui mi ero rifugiato per scampare l’imminente temporale. Il marito lavorava come medico di famiglia per i nuclei familiari meno abbienti e, per anni, la Kollwitz tratteggiò e ritrasse la quotidianità della Berlino più povera e disgiata. Attraverso i volti dei numerosi pazienti in attesa del loro turno, ammassati fin sul pianerottolo esterno all’ambulatorio.

Salvata dalla sua Arte

Gli ideali pacifisti, l’appoggio al socialismo più puro e l’aperta ostilità al Nazionalsocialismo le costarono l’ostracismo del Terzo Reich. Tuttavia, la notorietà ormai acquisita a livello internazionale la risparmiarono dalla deportazione e dal trattamento riservato ai nemici del regime. Visse a Berlino fino al 1943, da cui fuggì poco prima dell’inizio dei bombardamenti che l’avrebbero ridotta in un rogo e in cumulo di macerie. Il palazzo dove visse con il marito, deceduto qualche anno prima, venne distrutto dalle bombe, insieme a diverse opere lì presenti. Nel 1944 Käthe si trasferì a Moritzburg, vicino Dresda, dove morì nell’aprile del 1945, pochi giorni prima della resa della Germania di Hitler. La casa dove visse gli ultimi mesi ospita oggi un memoriale, mentre il principale museo sempre a lei dedicato si trova a Colonia.

Dolore e speranza

Dalle lettere e dai diari rinvenuti du Käthe, colpiscono le seguenti parole:
«Quando mi guardo indietro, nella mia vita lunga 77 anni, i ricordi più remoti si mescolano con le esperienze più recenti, ai miei amati figli, alla gratitudine per una vita che, nonostante le difficoltà, mi ha dato così tanto di buono; non l’ho sprecata e l’ho vissuta fino in fondo. Adesso chiedo solo che mi sia concesso di andarmene: il mio tempo si è concluso. La guerra mi accompagna fino alla mia fine...».

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