IL MISTERO DI HAUPTSTRAßE A BERLINO

IL MISTERO DI HAUPTSTRAßE A BERLINO
Il mistero di Hauptstraße - Berlino
Appunti per ricordare e da dimenticare

Il mistero di Hauptstraße a Berlino

Quando mi smarrii lungo la via del Duca Bianco

Riallacciandomi a un recente post, ove ho citato una delle mie “disavventure” berlinesi dovute a forte rincoglionimento dello scrivente, rispolvero questo aneddoto dal vecchio blog.
Nel gennaio del 2020, a distanza di oltre due anni dall’ultima volta, tornai finalmente a Berlino. Gennaio non è forse il mese più indicato per andare nella capitale tedesca, ma io non faccio testo. Non solo l’inverno è la stagione in cui la città sprigiona tutto il suo fascino – molti meno turisti in giro – ma io un anno, sempre a Gennaio, vi trovai riparo e un posto caldo. Si era rotta la caldaia della mia casa di Roma e l’attesa per il pezzo di ricambio era decisamente lungo. Come ho già precisato altrove, a dispetto delle temperature esterne che in inverno possono davvero essere rigide, la quasi totalità di case, negozi e locali a Berlino sono iper riscaldati. All’esterno si trascorre il minimo tempo necessario per raggiungere una fermata della U-Bahn, un café o un’abitazione.
Comunque, in quel gennaio del 2020, a causa del maltempo, mi fu cancellato e spostato il volo di ritorno in Italia, “costringendomi” a trattenermi un altro giorno pieno. Dato un insperato innalzamento della temperatura, decisi di spenderlo per il pellegrinaggio verso la famigerata Hauptstraße.

I preparativi

Mentre, mestamente e con la morte nel cuore, raccoglievo i miei effetti personali in vista della partenza all’indomani, pressoché certo che avrei dimenticato qualcosa. Accade puntualmente: anni fa, a Fiumicino, in partenza con amici proprio per Berlino, rischiai una sincope al momento dell’imbarco. Non trovavo più la mia carta d’identità, che normalmente conservavo nel portafogli. Ero ormai rassegnato a rimanere a terra, poi mi si accese la lampadina. La sera prima, in un eccesso di zelo, avevo riposto il documento in una tasca esterna del trolley, per evitare di dimenticarlo.
Una parte di me si sopravvaluta, ma in fondo si conosce molto bene.

L’uomo caduto sulla Terra e l’Iguana

La missione mi sembrava un po’ da turista fanatico, ma ero realmente curioso di fare un sopralluogo nel quartiere dove David Bowie e Iggy Pop avevano ritrovato nuova linfa artistica e, soprattutto, si erano salvati la vita. Entrambi avevano deciso di trasferirsi a Berlino per disintossicarsi dagli abusi di sostanze varie che, considerata la fama della capitale tedesca, suona come iniziare la dieta a un pranzo di parenti in Sicilia. Eppure funzionò. I due non solo si diedero una bella ripulita, ma scrissero e incisero una manciata di dischi che sarebbero presto diventati pietre miliari del rock.

Il Quasimodo e gli Hansa Tonstudio

A dire il vero, secondo alcune testimonianze dell’epoca, pare che le due rockstar non fossero propriamente esempi di rigore e sobrietà. Qualcuno ricordò le sfrenate scorribande notturne, le spole alcoliche tra i club più alternativi e trasgressivi della città. Del resto, si erano trasferiti a Berlino Ovest, certo non presso un eremo francescano.
Comunque, confidavo di bermi una birra nel piccolo bar da loro frequentato, a fianco dell’edificio dei loro appartamenti. Confidavo anche di fare un salto agli indirizzi di due tra i locali assiduamente frequentati dai due.
Sono entrambi a Charlottenburg: il Quasimodo, un jazz club e il Lützower Lampe, un bar-cabaret tra i primi a promuovere la libertà individuale e la diffusione di subculture come quella queer e quella del nascente movimento punk.
Infine, gli Hansa Tonstudios dove registrarono, tra gli altri, “Heroes” e Lust for Life, dove anche i Depeche Mode erano di casa e gli U2, con Brian Eno, partorirono Achtung Baby, uno dei dischi a cui sono più legato.

I preparativi del giorno prima

Decisi di fare anche un salto in un bar gestito da italiani a Moabit di cui avevo letto su una guida, e al Bösebrücke di Bornholmer Straße dove, 30 anni prima, i primi tedeschi dell’est avevano oltrepassato liberamente il Muro.
Un itinerario decisamente articolato, per cui partii armato di Tageskarte (biglietto giornaliero) e fotocamera, sperando di non stancarmi e, soprattutto di non perdermi.
Saggiamente, computer alla mano, studiavo nel dettaglio le rotte da seguire, appuntandole meticolosamente su un bloc-notes.
La mattina successiva mi svegliai di buon ora e feci colazione con gli amici, prima che essi si recassero ai rispettivi lavori. Fuori stava ancora albeggiando, ma dopo una doccia nel classico bagno berlinese cieco, trovai il soggiorno acceso da un sole baldanzoso che mi riempì di ottimismo.
Ma non trascorse molto tempo prima che le prospettive più rosee cominciassero a vacillare.

Un inizio poco incoraggiante

Infatti, appena giunsi alla vicinissima fermata dell’autobus, realizzai di non aver messo il prezioso “diario di bordo” compilato nello zaino. Persi tempo a chiedermi se fosse realmente possibile che me lo fossi dimenticato, piuttosto che tornare rapidamente a prenderlo, come una persona mediamente dotata di raziocinio avrebbe fatto. Mentre continuavo a controllare l’interno dello zaino – perché in fondo spero sempre che gli oggetti si materializzino o autotrasportino – vidi sopraggiungere il mezzo. Forse in quel momento non avevo più coscienza di essere a Berlino, ma a Roma, perché decisi di salirvi, piuttosto che andare a recuperare il quaderno. Insomma, non volli perdere un bus che – con una percentuale prossima al 101% – sarebbe ripassato dopo 10, massimo 15 minuti. . Una volta a bordo, presi comodamente posto e iniziai ad armeggiare con il navigatore del cellulare.
Che idea arcaica e anacronistica quella del quadernetto, pensai, è il 2020, baby.

Avrei dovuto scendere dopo alcune fermate per cambiare con un tram, ma quasi subito mi distrassi a osservare persone, strade e negozi. Ne scorsi uno che vendeva acquari e mentre mi domandavo se i miei amici – che ne possedevano uno – lo conoscessero, oltrepassai la mia fermata. Scesi a quella successiva e tornai indietro per circa un kilometro a piedi, dilungandomi nell’osservare e fotografare un circondario a me ignoto. Non pensai di controllare su google maps dove fossi finito, per preservare la batteria del prezioso cellulare.
Poco male: avevo comunque in programma di pranzare in un posto dove avrei potuto allacciarmi alla rete elettrica, ma ero ancora ignaro di avere dimenticato di prendere anche il caricabatteria.

6 ore

Avevo già perso quasi un’ora di tempo ed ero appena all’inizio dell’arduo compito.
Dovevo rientrare entro le 17:00, perché sarebbe tornato dall’ufficio l’amico che mi aveva lasciato il proprio mazzo di chiavi. Non avevo la minima idea di dove mi trovassi e presto avrei avuto l’ennesima riprova del mio livello di rimbambimento. L’indirizzo del bar italiano lo avevo annotato sul notes dimenticato e non riuscivo a risalire all’articolo in rete che lo consigliava. La mia ricerca in rete portò la batteria al 60%, per cui mi arresi ed entrai in una bakerei per cercare un po’ di conforto nei carboidrati. Lì realizzai del caricabatteria e, dopo una buona mezz’ora di improperi ed epiteti auto-inferti, recuperai calma e sangue freddo, illudendomi di potercela fare. Rinunciai a mangiare, ingurgitai rapidamente il caffè e ripartii.

Alla volta di Haupstraße

Il percorso con i mezzi era apparentemente semplice: un bus, la S-Bahn, e un altro bus, per 30-40 minuti circa di percorrenza. Alla stazione di Wilhemsruh dove mi attendeva l’autobus finale, scorsi un supermercato Norma; decisi di acquistare qualcosa da mettere tra i denti. Trangugiai un panino secco al formaggio, scolai un succo di frutta e fumai un penoso sigaro alla vaniglia lì acquistato. Si erano fatte quasi le 14:00 e cominciavo a paventare serie difficoltà temporali nel completare il percorso, ma non volli perdermi d’animo. Il mezzo non tardò ad arrivare e in appena quattro fermate scesi in prossimità dell’indirizzo entrato nella leggenda.
Momento cinema: in quell’istante la playlist sul mio ipod suonava “heroes”.
Anche se io mi sentivo più un supereroe.

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La targa

Il quartiere mi apparve subito molto tranquillo e residenziale. Al n° 55 di Haupstraße trovai il portone di una piccola palazzina anonima, con un vialetto di accesso. Nessun altro turista curioso, a parte me. Memore di aver letto di una targa commemorativa, mi avvicinai per verificare se ve ne fosse una. Da una finestra all’ultimo piano, una signora mi osservava con sguardo interrogativo, per cui desistii dallo sfoderare la mia reflex. Scelsi di immortalare la “porta santa” con il più discreto smartphone, che in quel frangente era al 40% di carica residua.
Mancavano tre ulteriori mete, da raggiungere in meno di due ore. Missione impossibile, ma non lo volli accettare. Non c’era nessuna targa, e faticai a visualizzare mentalmente David e Iggy che fumavano affacciati a una di quelle finestre, durante una pausa dalla composizione di China Girl. L’edificio e il circondario non avevano proprio nulla di rock. Inoltre non c’era (non poteva esserci) alcun bar a fianco.
Non restava che verificare su google cosa fosse andato storto.

Una piccola svista

Hauptstraße 155, non 55, mi dissi prendendomi idealmente a cazzotti. Riprogrammai nuovamente il navigatore: ok, si trattava solo di salire sullo stesso bus che mi aveva portato fin lì e scendere dopo altre tre fermate.
In attesa, alla fermata eravamo io e una ragazza di origine mediorientale: in cuffia suonava Yassassin da Lodger. L’autobus comparve nel volgere di pochi minuti e, colmo di rigenerata speranza, nonostante il cellulare al 30% e le lancette che correvano, scesi al civico 153 (foto sotto).

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Pochissimi passi e, finalmente, Hauptstraße 155 fu. Un bell’edificio di 2 piani, meno anonimo, ma qualcosa continuava a non tornarmi. Davanti al primo portone, quello sbagliato, cercando in internet l’indirizzo corretto, mi era apparsa l’immagine di un edificio ben più imponente, in un contesto meno rurale e da paesello di quello dove mi trovavo. Inoltre nemmeno lì non vedevo alcuna targa commemorativa. Notai delle luci accese al primo piano e, dietro i vetri, un certo fermento di persone nel pieno delle loro attività lavorative. Ne dedussi, per disperata auto-persuasione, che l’appartamento fosse stato adibito a museo: aveva senso, in fondo. O no?

Arrendersi mai

“Ok. Forse questa non è la casa di David, ma io ce l’ho messa tutta!”
Nemmeno di fronte all’evidenza, mi volli arrendere. Scattai qualche foto, sotto lo sguardo perplesso di un tizio seduto in un furgoncino. Sia il suo veicolo che gli altri parcheggiati davanti alla casa, rendevano impossibile fare una foto decente. Attesi una decina di minuti, confidando che almeno il tipo se ne andasse e liberasse parzialmente la visuale. Buttai di nuovo un occhio allo smartphone che, logicamente, segnava ormai rosso: 15%. Ebbi poi un sussulto: il bar di fianco, al civico 157. Eccolo:

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Street art e punkabbestia

Non ero propriamente convinto, ma me lo spiegai con un “si sa che i tedeschi sono strani“; inoltre, i contenitori per la differenziata su un lato, per qualche motivo inspiegabile, rafforzarono la mia convinzione. Certo che sul retro o all’interno avrei trovato delle foto o dei graffiti – e magari la targa – mi appropinquai verso l’area cortilizia con l’intenzione di ispezionare l’area. Pensavo di trovare un gigantesco murales ritraente Ziggy, ma già sulla soglia d’ingresso ebbi la netta impressione che più che un’opera di Blu avrei trovato al massimo un paio di galline.Ero intenzionato ad andare in fondo alla faccenda, ma mi bloccò il sopraggiungere di due autoctone vestite punk che si dirigevano verso me parlottando e destinandomi sguardi vagamente minacciosi. Sono certo che la loro gutturale e incomprensibile conversazione fosse stata la seguente:
Che cazzo sta facendo quel pirla con la macchina fotografica nella nostra proprietà?
– Non lo so, ma non mi piace. Chiamiamo la polizia…
– Sei scema? Siamo piene di roba! Andiamo a prendere Adolf e Brutus.
(i loro due rottweiler)
Mi allontanai velocemente e lì cominciai ad acquisire l’accettazione del fallimento, ma imputavo tutte le responsabilità a google maps. Eppure, un cartello stradale davanti a me, indicava che ero inequivocabilmente in Hauptstraße, Berlin.

Resa finale

Restava il tempo necessario per rincasare in tempo utile ed evitare che il mio amico mi dovesse aspettare fuori da casa sua. Attendendo l’autobus, mi consolai con il preludio di un bel tramonto e i Depeche Mode nelle cuffie:

I want somebody to share, share the rest of my life
Share my innermost thoughts, know my intimate details

Someone who’ll stand by my side

(Chiunque, a patto che non ridesse di me).

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La spiegazione

La Grande Berlino (originariamente circoscritta al quartiere centrale di Mitte) nacque nel 1920, con un importante ampliamento del suo territorio, dovuta all’annessione dei numerosi villaggi circostanti (gli odierni Spandau, Pankow, Neukölln, Lichterfeld eccetera) confini cittadini. Questa è la ragione per cui molti Ortsteile (quartieri) hanno il loro antico municipio e anche la loro Hauptstraße (letteralmente “strada principale”). Purtroppo non è stata pensata una revisione toponomastica e di fatto Berlino pullula di Hauptstraße. Se fossi stato un po’ più attento nel corso delle mie ricerche su google maps, avrei evitato di trascorrere un mezzo pomeriggio in un ex villaggio rurale (Wilhelmsruh) di cui nemmeno conoscevo l’esistenza.

Hauptstraße Berlino Google maps
Hauptstraße


3 thoughts on “IL MISTERO DI HAUPTSTRAßE A BERLINO

  1. Appena hai nominato Roma mi sono sciolto dalla commozione, perché è una città alla quale mi legano tanti splendidi ricordi. Hai sentito la canzone che le ha dedicato Max Pezzali (In questa città)?

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