A BERLINO NON C’È IL MARE

A BERLINO NON C’È IL MARE

A Berlino non c’è il mare

« Non me ne sarei mai andato da Barcellona, se non mi fossi sentito costretto a farlo. Lì sono nato e cresciuto, nella metropoli, dicevano almeno, più giovane, assolata e godereccia d’Europa. Sapevo che il rapporto simbiotico conla mia città avrebbe reso difficile il mio adattamento in un’altra, così agli antipodi, come Berlino.
A Berlino non c’è il mare. Già durante i tre anni di università a Salamanca e i due di Erasmus a Milano, avevo sofferto terribilmente la lontananza dalla mia “Ciudad Condal“. Avrei dovuto nuovamente struggermi di nostalgia per le lunghe passeggiate sulla spiaggia, per il profumo salmastro dell’alba, per quel suo così amabile, lento e pigro risveglio. L’ultimo pomeriggio lo trascorsi percorrendo a piedi un lungo tratto della Diagonal; il sole sfavillava alto nel cielo terso di un blu intenso. Di una tonalità che a Berlino, sospettavo, non potesse esistere.
Con cadenza ritmica e regolare, i manifesti degli indipendentisti catalani, affissi un po’ ovunque, occhieggiavano catturando la mia attenzione. Ero in partenza per la città simbolo dell’unione e della pace tra i popoli e, riflettevo, mi sarebbe mancata da morire la mia città dove qualcuno, i muri, si impegnava a volerli erigere.

Alexanderplatz

Arrivai a Berlino in una tagliente mattina di gennaio. Non erano ancora le 7, ma la città mi si parò davanti già operosa e attiva. Alexanderplatz brulicava, concitata come un formicaio; i treni e i tram sferragliavano in un disegno apparentemente meticoloso e preciso, mentre l’odore di forni e lieviti si mescolava a quello pungente della nebbia. I banchi caliginosi, come in un numero di prestigio, rilasciavano e inghiottivano innumerevoli sagome scure che sgambettavano rapidi e a testa bassa, ritratti come testuggini nelle sciarpe e nei baveri. Subito mi torturai al ricordo di me stesso, appena qualche giorno prima, sdraiato sul Mirador a riscaldarmi come un rettile.
Mi ripetevo, con lo stesso incedere circolare dei tram avvolti nella sospensione di cristalli ghiacciati: “qui non c’è il mare, qui non c’è il mare, qui non c’è il mare…”.

Berlino Mare
Un pianto liberatorio

Spossato da quel loop e dal lungo viaggio, mi fermai davanti all’Urania e scaraventai lo zaino a terra come una zavorra, poi scoppiai a piangere. Nell’indifferenza generale captai giusto un paio di sguardi interrogativi, forse un po’ imbarazzati. Le lacrime scivolarono giù per le gote fino alle labbra; avevano lo stesso sapore di quelle di mia madre, che avevo raccolto e portato con me. Erano rimaste intrappolate, dove si erano asciugate, tra le maglie di una giacca troppo leggera per quella temperatura. Negozi e grandi magazzini erano ancora chiusi per cui, infreddolito e affamato, trovai ristoro e un po’ di tepore in un bar all’interno della stazione.

Alberi sradicati

I primi mesi mi interrogai spesso sul come mai tante persone si fossero trasferite o desiderassero vivere a Berlino.
Mi sentivo ostaggio di una città buia, fredda e inospitale, che mi trasmetteva un asettico e nevrotico senso di rigore. Ogni singolo concittadino pareva assorto nel proprio mondo serrato a tripla mandata; al massimo intento a ripararsi dal gelo e dalla neve in un kneipe, oppure a scaldarsi con un caffè da asporto tra le mani.
Oggi so quanto ero ingrato nei confronti di una città che mi aveva accolto sì in una morsa di freddo, ma che mi aveva soprattutto offerto l’opportunità di un lavoro dignitoso e di una vita placida. La contestavo e proprio non mi riusciva di apprezzarla, o quantomeno rispettarla. I berlinesi, poi, li vedevo apatici e rassegnati; berlinesi erano anche i numerosi turchi, gli spagnoli, gli italiani, i greci. Genti di paesi assolati, dagli inverni miti e lambiti dal Mediterraneo. Rettilari o al massimo acquari, non certo il formicaio in cui identificavo quel mondo.
Vedevo i berlinesi, dunque anche me stesso, come ad alberi espiantati e rinvasati in un terriccio ottimale per la sopravvivenza. Le radici entravano da subito in sofferenza, poi si adattavano e propagavano, aggrappandosi alla rinfrancante concretezza delle nuove, sconosciute abitudini.
Era humus per respirare e vivere, ma non per confidare in tempeste felici o in voli di unicorni.

Berlino Mare
Felicità

Come si può essere felici qui, mi domandavo, se non c’è il mare? Non tardai a trovare le risposte, affacciato sul vasto oceano di possibilità che circondava e fluiva dentro Berlino. In molti mi dissero che avevo scelto il periodo peggiore per trasferirmici, e forse avevano ragione. Ma se fossi giunto in primavera o in estate, avrei conosciuto subito l’aspetto più irresistibile e incantevole della città. Il conseguente e logico processo di trasformazione sarebbe stato certamente meno traumatico e d’impatto, ma paragonabile al dolore incalzante di un dente cariato che man mano scopre il nervo. Avrei patito una lenta e inesorabile agonia.
Con la fine dell’inverno Berlino cominciò a rivelarsi tenera e festosa come una lepre sbucata da un cumulo di neve, ma soprattutto bellissima. I parchi, il Spree, i canali, i laghi, le spiagge artificiali: vissi la mia prima estate berlinese in maniera piena e sfrenata. Certo, continuò a mancarmi il mare, anche quando visitai il Baltico. Persino i gabbiani di Rostock mi sembrarono spenti, algidi ed estranei. D’istinto imparai, nonostante le grevi mancanze, a soppesare i pro e i contro. Capii presto che a Barcellona avevo tutto quello che mi mancava a Berlino. E viceversa.
È vero: a Berlino non c’è il mare, ma oggi so che solo qui, ho conosciuto, per la prima volta, il sapido gusto dell’appagamento e persino quello più illusorio della felicità. Senza il conforto delle vecchie abitudini, dei profumi familiari e il mare. Ho persino ricominciato a credere negli unicorni; spesso, la notte, ne plana uno sul balcone della mia stanza, gli salgo in groppa e mi trasporta per un po’ al mio amato mare. »

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